vini, persone, territori, tradizioni

vini, persone, territori, tradizioni

Agricoltura reale, ruralità patinata, finanza sana

Marco Noferi è uno dei fondatori di Paterna una piccola cooperativa agricola che da 30 anni produce vino, olio e ortaggi in Valdarno, tra Firenze e Arezzo. Pubblichiamo l’intervento che ha tenuto all’incontro dedicato alla finanza etica a Sorgentedelvino LIVE nel febbraio 2014, una visione ampia e lungimirante sull’agricoltura inserita nel territorio, perché vino naturale, agricoltura biologica, etica, non rimangano parole  fine a se stesse ma diventino parte di un progetto collettivo per il territorio e per le persone. Per non arrendersi alla progressiva erosione di responsabilità e competenze, alla pervasività dell’agrofinanza, all’accettazione di soluzioni chiavi in mano, alla confusione tra agricoltura reale e ruralità patinata, alla pervasività dei capitali esterni, al ricorso crescente ad agenzie interinali e cooperative fasulle. E si torna a parlare di responsabilità individuale.

paterna-marco

Una piccola cooperativa in un fondale senza più trama

Paterna è una piccola cooperativa agricola in Valdarno, un’area dinamica e contraddittoria, sempre sospesa tra vecchio e nuovo. Oggi, non più rurale ma neanche pienamente post-industriale, fino a ieri ricca e senza disoccupazione. Ora, con un po’ di ritardo, la crisi è arrivata anche qui.

Una specie di interregno, dove l’agricoltura in termini economici è poco più che una comparsa, oramai di contorno, residuale, spesse volte retorica (un’agricoltura da sagra). Così, questo territorio è progressivamente uno spazio rurale senza più una reale attività agricola, è la città che si è trasferita in campagna, quella stessa campagna che è senza contadini. Si potrebbe dire che è una specie di fondale senza trama, dove alloggiano – più che la sanità di rapporti, scambi e produzioni – i timori e le richieste di una contemporaneità vogliosa e bisognosa di tipico, di autentico, di genuino.

paterna-agriturismo

E’ come se si fosse verificato in questi ultimi decenni un progressivo asservimento della risorsa rurale all’immaginario del consumatore domenicale, uno svilimento, una perdita di protagonismo e di orgoglio dell’agricoltore (gli ultimi “contadini” non parlano mai agli incontri, mentre quelli nuovi rilasciano interviste sulle loro scelte di vita); un lento declino e una frattura storica tra il prima e l’oggi, durante la quale diminuiscono le varietà coltivate, crollano i prezzi all’origine e il grano ha la stessa valutazione di vent’anni fa; però, contemporaneamente aprono negozi di giardinaggio, si moltiplicano fiere e sagre e i clienti dei consorzi agrari sono ormai per la maggior parte degli hobbisti.

La cooperativa nasce alla fine degli anni Settanta, con la generazione dei “movimenti per la terra”, delle occupazioni, delle comuni e delle prime cooperative. La passione politica, la curiosità di alcuni, il confronto con le altre esperienze, fanno nascere le prime intuizioni, i primi dibattiti, i primi progetti. La cooperativa diviene negli anni un laboratorio e un riferimento per molti, per associazioni, per enti, studenti, ricercatori, per fortuna anche per alcuni contadini: quelli più vecchi, che guardano a questo movimento un po’ curiosi e un po’ scettici. Qualche anno dopo, sono arrivate le collaborazioni con l’Università e la Regione: da metà anni ’80, l’azienda dà ospitalità a progetti di didattica e formazione, a stages e attività sulla cultura e sullo sviluppo locale, alla rete per la conservazione della biodiversità animale e vegetale.

La nostra storia è un lungo racconto di almeno 25 anni, dove si mescolano esperienze e persone e dove si intrecciano il piano del lavoro e quello delle sensibilità personali, dove si sperimentano alternative di organizzazione del lavoro e di gestione di processi produttivi. E’ stato un lavorare lungo negli anni sul territorio, con risultati a volte positivi a volte negativi, e sempre insieme ad altri, cercando di mettere insieme le competenze diverse e di armonizzare le singolarità in un progetto complessivo. I fili conduttori del lavoro sono sempre rimasti gli stessi:

  • l’idea di bene comune
  • il contribuire al capitale sociale dell’area
  • la necessità di emancipazione dal mercato e dalle produzioni di massa
  • la ricerca di qualità “ulteriori”
  • la volontà di partecipare al controllo dei processi e delle gestioni locali
  • il tentativo di individuare il metodo, la prassi che può consentire –in agricoltura- il passaggio dalla soggettività e dalla singolarità alla collettività.

Quindi, in fondo, la ricerca di una economia più “morale” e senz’altro più reale e meno fittizia, contro gli eccessi e le decadenze contemporanee. In una parola, un’economia più sobria.

Tipicità, perdita di senso, perdita di democrazia

Questi erano presupposti e i tentativi, su cui abbiamo lavorato negli anni insieme a tanti altri, alcune volte con esiti positivi ed altre volte con esiti negativi.

Ad esempio, uno degli argomenti più rischiosi si è giocato attorno alla questione delle “tipicità”, che nella sostanza ormai non significa più niente e si esaurisce in poco più di una gara tra associazioni e pro loco sulla gestione di fiere, sagre ed eventi e dove la risorsa locale ne esce depauperata e banalizzata.

Oppure tutto il tema della qualità ambientale, che spesso si è ridotta nell’economia separata di enclaves di stranieri o cittadini con la tenuta in Toscana, o nei premi UE per il mantenimento del capitale fondiario, o in piani regolatori che non tengono conto della ricchezza della terra (è più facile incontrare la fattoria dell’attore o dell’industriale col consulente biodinamico, piuttosto che un biodistretto dove le aziende “normali” praticano sistemi produttivi sostenibili e responsabili). O ancora, il caso dell’agriturismo, che in Toscana si è velocemente tramutato in un approccio -culturale ed economico- che richiama i resort e gli alberghi di campagna. E anche nel caso del vino, divenuto un mondo affollato di grafici, pubblicisti, fotografi e alchimisti (e squadre di lavoratori stranieri).

Perché alla fine qui è il problema: a cosa serve alla lunga essere un bravo vigneron o avere tutti gli appartamenti dell’agriturismo prenotati, se non hai rapporti con i confinanti, se non sai quanta manodopera al nero viene utilizzata nel territorio, quante sono le aziende ormai in mano alle banche, se in quella zona c’è ancora gente capace di potare bene gli olivi e di gestire queste stagioni sempre più complicate? A cosa serve, se quell’unità produttiva rimane tale e quale, cioè una unità singolare e autoreferenziale (un non-luogo) e se non sa stabilire contatti ed operatività con altri agricoltori e vignaioli, con altri operatori agrituristici, con l’associazione dei Gas per esempio e, perché no, con l’assessore del suo Comune?

Oggi, c’è il rischio grande di farsi guidare dalle mode, che sia il vino con l’etichetta o il prodotto tipico o l’agriturismo, specializzando “tenute” e “fattorie” in singole tendenze che -prese da sole e reiterate negli anni- portano ad una separazione progressiva, ad una passività progettuale, all’impoverimento professionale e alla fine anche a quello economico (proprio come le monocolture). Cioè, non ti fa lavorare con gli altri, con la comunità, con la varietà dell’universo agricolo, con la complessità delle campagne. E poi educa a cattivi pensieri, di superiorità, di corporazione e alla fine provoca cattive economie perché al posto di cercare delle buone strategie locali (originalità, reputazione, collaborazioni ed alleanze con altre aziende, gruppi, consumatori) ci si vende all’agenzia di turno per affittare la fattoria per gli “eventi” o si fa il vino come dice l’enologo o si impostano tutte le coltivazioni secondo il piano del consulente.

E’ anche così che arrivano i fallimenti delle imprese e dei territori: per la progressiva erosione di responsabilità e competenze, la pervasività dell’agrofinanza, l’accettazione di soluzioni chiavi in mano, la confusione tra agricoltura reale e ruralità patinata, la pervasività dei capitali esterni, il ricorso crescente ad agenzie interinali e cooperative fasulle.

E’ uno svuotamento di responsabilità, che rappresenta una perdita di senso per il territorio e –storicamente- una perdita di democrazia.

Buone notizie: alleanze, sguardo lungo, piccole economie locali

In questa situazione contraddittoria, dove si alternano le risorse con le criticità e l’originalità con la banalità, abbiamo collaborato con delle esperienze positive, che possono concludere bene questo racconto e che evidenziano la possibilità di legare ancora oggi il territorio con la comunità e con l’agricoltura praticata (e che forse sono tracce di una possibile contadinità contemporanea).

Ad esempio, l’agricoltura sociale (o meglio agricoltura civica, o agricoltura di comunità): centinaia di esperienze, in Toscana come in altre regioni, che accolgono la diversità e offrono ospitalità e servizi a persone con disagio o con bassa contrattualità sociale. Una riproposizione del solidarismo diffuso nelle famiglie e nelle comunità contadine e, oggi, una nuova idea di welfare locale.

Oppure, i progetti con le mense pubbliche: noi stessi ospitiamo in azienda l’attività di una cooperativa sociale di tipo b, che prepara ogni giorno i pasti per alcuni asili nido, con le materie prime provenienti da aziende della zona.

Oppure ancora, l’esperienza del Mercatale, del Mercato dei produttori: ogni giorno centinaia di persone hanno la possibilità di acquistare nel grande farmers’ market del Valdarno; abbiamo lavorato a questo progetto per i tre anni iniziali, cercando sempre di evidenziare l’importanza del rapporto tra il pubblico e il privato.

E poi, tutte le storie appena iniziate: il passaggio dal prezzo al valore per l’olio extravergine di queste colline, la riproposizione di attività integrative per l’economia agricola familiare ad esempio attraverso allevamenti come quello del pollo del Valdarno, la sistemazione di una “filiera della conoscenza materiale” (potatori, innestini, esperti per la conservazione dei muretti a secco, degli essiccatoi, dei mulini ad acqua, ecc…), la partecipazione a filiere della piccola agricoltura di montagna, dov’è fondamentale restituire dignità economica a coltivazioni residuali come il giaggiolo o come le castagne.

Questi sono processi positivi, ed arrivano anche come risultato di un lungo lavoro di alleanze, strategie, ricerca di consensi, ricerca di finanziamenti e autofinanziamenti, reputazione che via via si consolida nell’area. E spesse volte non sarebbero possibili senza il contributo di nuove figure di agricoltori, più colti, più attenti, più autonomi.

Sono anche dimostrazioni concrete (250/300 ingressi al giorno nel farmers’ market, centinaia di pasti preparati dalle mense, migliaia di storie di ospitalità per l’agricoltura sociale, ecc…) di come sia possibile lavorare sul territorio con gli altri, con originalità ed obiettivi politici, produrre benessere e bene comune e rigenerare un capitale tramite meccanismi economici “più caldi”, capaci di legare la produzione di beni materiali privati con la messa a disposizione di beni immateriali collettivi.

Sono processi comprensibili e verificabili, dove gli agricoltori finalmente sono protagonisti con un contributo proprio ed originale e dove le aziende (da non luogo che produce cibo e/o ingredienti in sé anonimi e mortificanti) divengono il luogo riconosciuto e reputato dove l’agricoltore lavora per il bene (benessere) pubblico ed è interlocutore qualificato del bisogno collettivo: il luogo dove l’agricoltore è soggetto generatore di buona economia locale.

Quindi, le campagne cambiano, ed è bene che cambino.

Forse, e sarebbe bello, l’agricoltura salverà il mondo.

A patto di baloccarsi meno con la retorica, le tipicità, i grafici, i siti internet; e se riuscirà a fare a meno della finanza –anche di quella “buona”- e a stabilire invece obiettivi comuni e contratti politici con chi dovrà pur mangiare tutti i giorni (ed avrà anche bisogno di rimettere i piedi per terra).

Articolo di Marco Noferi, Paterna

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