Intervista con Luca Gargano di Velier I vini “Triple A” sono sempre esistiti nell’ombra, ma quattro anni fa è arrivata una persona che li ha riportati alla luce e li ha rimessi sotto i rifettori, questo è proprio Luca Gargano, titolare di Velier, la società di distribuzione vini e alcolici fondata nel 1947 da Casimiro Chaix e guidata da Luca Gargano dal 1983.
Abbiamo incontrato Luca Gargano in una stanza bianca all’ultimo piano della villa in cui ha sede Velier a Genova. Avrebbe dovuto essere un’intervista, ma è diventato un incontro lungo e davvero entusiasmante con lui e Fabio Luglio, spaziando tra tanti argomenti, tanti assaggi, tante idee. Ancora una volta abbiamo avuto la conferma che quando si parla di vini naturali la grande differenza la fa il sapore del vino che abbiamo nel bicchiere, ancora una volta è da qui che si parte per risalire poi fino alla vigna e al lavoro del vignaiolo/agricoltore. Ma adesso la parola a Luca Gargano, iniziamo dall’inizio!
Qual è la tua storia? Come ti sei avvicinato al mondo del vino?
Sono nato in campagna, vicinissimo a Novi Ligure e i genitori di mia mamma erano agricoltori e ho passato davvero molto tempo in campagna. Poi ci siamo trasferiti in città, a Genova, ma le mie radici rimangono là, nella campagna dei miei nonni. Dopo gli studi ho iniziato a lavorare nel settore degli alcolici e nel 1983 ho comprato Velier che esiste dal 1947. Nel 1988, con mio fratello Paolo, ho iniziato a importare i vini dal nuovo mondo e questo fino al 2000.
Verso la fine degli anni Novanta infatti mi sono reso conto che non capivo più niente di vino, piano piano non si parlava più di agricoltura e non si vedevano più i vigneti. Vedevo tante cantine nel mio lavoro, ma l’agricoltura pareva essere sparita. In quel momento non avevo più voglia di fare degustazioni e mi sono accorto che avevo dimenticato due cose: l’agricoltura e il discorso sui lieviti. Quindi ho cominciato a fare degustazioni di vini dagli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e Ottanta, ho cercato di osservare in particolare come cambiava il Bordeaux che è sempre stato uno dei miei vini preferiti. I vini fino agli anni Settanta raggiungono una spiritualità altissima, negli anni Ottanta il Bordeaux cambia filone e si standardizza completamente negli anni Novanta.
Nel 2000 parlando con Fabio Luglio dicevo: il vino si è industrializzato e il Bordeaux è morto. E così piano piano ho preso questa strada, nel Luglio del 2001 in una notte insonne ho scritto il manifesto dei vini Triple A che è stato pubblicato “per sbaglio” dall’Ais Lombardia. Dopo qualche giorno mi chiama Samuel Cogliati e mi dice che sto dicendo le stesse cose che dice Nicolas Joly. Così l’ho chiamato e abbiamo scoperto di essere sulla stessa strada. Nel 2002 nasce Triple A. Per seguire insieme a me questo progetto chiamo Fabio Luglio, un grandissimo palato. Con lui e Paolo per circa un mese siamo andati a scovare, grazie a un grandissimo passa parola, i produttori di vino vero.
Il 16 gennaio 2003 davanti ai miei agenti tengo un discorso in cui gli racconto tutto questo e in cui abbiamo eliminato 700 vini in un sol colpo. Mi prendevano per matto. Al Vinitaly 2003 abbiamo lanciato questa linea. Il nostro stand era pieno di visitatori e quando parlavo dal palco avevo ogni tanto paura di essere citato in giudizio per diffamazione. Dicevo cose vere, che andavano però assolutamente contro corrente. Da lì le cose si sono mosse con estrema velocità: a giugno Joly ha organizzato Hangar 14 e mi ha chiesto di essere presente con il gruppo italiano, nel 2004 c’è stata la prima edizione di Villa Favorita, ecc.
Ho avuto tre grandi maestri: Giorgio Grai, l’ultimo degli enologi umanisti, Soldera e Hochar di Chateau Musar, il più grande uomo del mondo del vino, ma quando ho lanciato Triple A avrei voluto che fosse presente Luigi Veronelli. Purtroppo non è stato possibile, ma lui è stato un personaggio fondamentale nella storia del vino italiano, nel corso della sua storia si è piegato alle esigenze del mercato, ma verso la fine della sua vita stava riprendendo la strada che aveva abbandonato tanti anni prima. Hai accennato al discorso dell’utilizzo dei lieviti indigeni che è anche una delle regole che chiedi di seguire ai produttori che vogliono far parte della distribuzione Velier – Triple A.
Puoi approfondire questo argomento? Perché ritieni questo aspetto così importante?
I lieviti sono lo sperma dell’uva. Non ne parla nessuno perché è più facile fare vini biologici usando poi in cantina i lieviti selezionati. Spesso si gioca con l’aspetto romantico della cosa, ha invece implicazioni pratiche e reali che incidono radicalmente sul vino che troviamo nel bicchiere. Il lievito è quello che traduce il tuo lavoro in vigna: se in vigna lavori benissimo ma poi non usi i tuoi lieviti perdi tutto quello che hai fatto. Nella Carta di Qualità dell’associazione Renaissance des Appellations, Joly ha previsto (almeno fino al 2008) tre stadi di lavoro a cui gli associati possono aderire in base al tipo di lavoro che svolgono in vigna e in cantina. Già al primo stadio però viene richiesto di non impiegare lieviti selezionati (sia ogm che non ogm, aromatici o non aromatici). “Il nostro intento è anche quello di ridare alle Denominazioni, il loro pieno significato, in Francia così come all’estero, e perciò di affrancarsi da una concorrenza che la tecnologia ha considerevolmente amplificato con sua atipicità”, se per raggiungere questo obiettivo primario la Renaissance des Appellations chiede – tra le altre cose – che non vengano utilizzati i lieviti selezionati, significa che il problema dei lieviti è veramente cruciale e qui non stiamo parlando di salute, di ambiente o di etica, ma di sapore del vino. Nel parlare e nell’usare i lieviti indigeni dell’uva si incontrano due difficoltà:
1) noi dei lieviti non sappiamo quasi nulla. In un mondo bacato dal materialismo scientifico non riusciamo a spiegarlo, la fermentazione ha un aspetto magico. Chi trasforma l’uva in vino sono i lieviti;
2) l’uomo ha perso il senso del mondo vegetale, si pensa che una pianta sia una specie di macchina da alimentazione che esiste per produrre i frutti per l’essere umano. Si è persa la relazione con il mondo vegetale: a febbraio vai in un vigneto e non c’è nulla, in autunno è ricco di frutti. Un frutto è 95% luce e energia, l’estratto secco non è che il 4% di materia minerale. Cosa crea tutto questo? La fotosintesi, senza fotosintesi non si ha nulla. E’ la materializzazione di una forza che arriva dalla luce. Le radici da sole non fanno nulla. Sono i batteri e le micorizze che compiono tutto il lavoro di assimilazione della materia presente nella terra che serve alla crescita dei vegetali. E’ un equilibrio complesso quello che porta alla maturazione del frutto e noi ne abbiamo perso consapevolezza.
Capendo come si svolge il lavoro agricolo si capisce cos’è il vino. Ma quando poi il vino ci troviamo a berlo, dobbiamo viverlo con i sensi, non con la ragione: la degustazione col cervello non serve a nulla, il vino devi intuirlo, devi viverlo con la sensazione, poi posso entrarci anche con la testa, ma il primo impatto è sensoriale e emotivo. Un vino fatto con i propri lieviti ha un impatto forte, certamente è diverso da un vino costruito dall’industria. Se noi fossimo abituati a vedere sempre solo persone rifatte, donne fisicamente perfette ma finte e improvvisamente entrasse una persona bella ma normale, non rifatta, ci colpirebbe moltissimo, magari non riusciremmo a dire subito “che bella donna” perché saremmo abituati a un altro canone di bellezza, ma ci colpirebbe per la sua particolarità.
Si sente dire spesso in giro che i vini naturali sono diventati una moda, che è solo qualcosa di effimero e passeggero. E’ vero secondo te?
Il discorso è un po’ più complesso. Potremmo vivere tranquillamente senza vino, certo. Ma perché esistono il vino, i pisarei e faso e altri piatti gustosi e elaborati? Il vino è un banco di prova per la convivialità: quando bevi bene nasce un’atmosfera completamente diversa, l’effetto del cibo è sul lato psichico! Per questo ora voglio lavorare sulla frase Bevi chi sei! Scegliere un tipo di vino piuttosto che un altro è direttamente collegato alla personalità di chi sceglie. Quando dico che il cibo agisce a livello psichico sulle persone lo dico a ragione veduta.
Ad esempio: da molti anni avevo il sogno di poter permettere alle persone che lavorano con me in Velier di mangiare in modo sano, ma non ero mai riuscito a realizzarlo fino a quando non ho incontrato Stefano Bellotti di Cascina degli Ulivi che conduce tutta l’azienda con agricoltura biodinamica. Ogni settimana ci porta le verdure del suo orto, all’inizio i miei dipendenti erano piuttosto scettici e si avvicinavano alle cassette di verdura con reticenza, da quando hanno provato e hanno capito che sono molto più buone di quelle del supermercato non vedono l’ora che arrivino. Ho però notato in loro un grande cambiamento, da quando mangiano meglio sono diventati anche più “furbi” e positivi. I bevitori non vedono l’ora di essere informati su quali sono i vini naturali, ma c’è di mezzo la lobby del vino, la High Food Community che mettono i bastoni tra le ruote per non perdere i propri privilegi che sono soprattutto economici. Per questo voglio che i vini naturali diventino di moda, solo così potranno essere comunicati a un vasto numero di persone, ma una moda nuova in cui le persone scelgono un determinato modo di bere perché è giusto, perché non vogliono essere schiavi dell’industria alimentare, perché non vogliono farsi rincoglionire!
Nel corso dell’ultima convenction mondiale dell’ O.I.V. hanno riservato uno spazio per parlare dei vini naturali e hanno citato Triple A e Renaissance, questo mi ha dato grande soddisfazione perché siamo riusciti a far penetrare le nostre idee in un luogo che è una sorta di tempio del vino della HFC.
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Ancora una volta un sentito ringramento a Luca Gargano per la disponibilità e per la bella giornata che abbiamo trascorso insieme. Per maggiori informazioni sui vini Triple A, su Luca Gargano e Velier vi consigliamo di visitare Velier Explorer