Una giornata di nebbia, un dicembre di inizi anni ottanta. Freddo becco, galaverna.
Candelo, oggi provincia di Biella allora Vercelli.
Il campanile ha appena suonato la mezza. Un ragazzo entra nell’unica trattoria aperta nel paese, oggi probabilmente ristorante slow-fighetto.
Unico avventore al tavolo davanti al camino un signore, “Scusi posso sedermi con lei che ho mangiato freddo tutta la mattina?”
“Prego” e un fiume di parole su cosa, come e perchè mangiare. Sanguinacci si, rane non ora bisogna venerci in stagione, la paniscia, il riso che come non lo trovi da nessun’altra parte.
La fame dei vent’anni è tanta, quella del signore non è da meno. L’oste raccoglie gli ordini.
Il signore all’oste: “fai tu” . Il ragazzo “faccia lo stesso”.
Nessuno ha ordinato da bere. Il ragazzo” e cosa si beve?” “qua puoi ordinare bottiglie delle migliori cantine di tutto il Piemonte, ma il dolcetto sfuso del cognato dell’oste è insuperabile”.
Arriva il primo litro, pane, grissini. Niente acqua.
Qualche fetta di lardo, il peperone con l’acciuga, la frittata a fette, il salame intero con tagliere e coltello.
La paniscia, riso fagioli e cotiche, niente pomodoro. Fagioli e cotiche che il ragazzo avrebbe rirovato trent’ani dopo nel piatto, altra regione, ad accompagnare i pisarei.
Arriva anche il secondo litro di dolcetto, il ragazzo non ricorda cos’altro portano in tavola oltre il sanguinaccio col purè di patate.
Il signore era, a questo punto ovviamente, era Gino Veronelli, 2 febbraio 1926 / 29 novembre 2004