Ringraziamo Andrea Zanfei della Fattoria Cerreto Libri per aver voluto condividere con noi (e con voi) queste sue lucide e lungimiranti riflessioni sull’etichettatura del vino e dei prodotti biologici in Italia, ma non solo. Oggi si parla molto di biologico, biodinamico, di DOC e DOCG, di Commercio Equo e tanto altro. Parole che corrispondono ad altrettanti marchi, vogliamo guardare a tutto questo da un diverso punto di vista?
La maggior parte dei consumatori di generi alimentari fa i suoi acquisti nei supermercati. È in questi grandi spazi dalla luce ipnotica che massaie di rinomata esperienza, mariti con foglietto sul carrello, giovani coppie costrette al risparmio, impiegati sul filo dell’orario di chiusura, e tanti altri esseri umani capitati a vivere in questo secondo, confusissimo millennio, hanno imparato a leggere le etichette, a confrontare i prezzi e a portarsi a casa i prodotti più svariati. Tanto per dire che non è prevalente l’abitudine del comprare a caso e che questo “fai da te”, ormai dominante nella società dei servizi (occhio alla contraddizione ), induce ciascuno a sviluppare una competenza di autodifesa di fronte alla moltiplicazione continua delle proposte di mercato.
In questo scenario è cresciuta anche un’avanguardia di ricercatori più selettivi, capaci di motivare le loro scelte in base a riflessioni sulla salute, sull’inquinamento, sugli interessi dei monopoli,ecc. I GAS (gruppi d’acquisto solidali) ne sono un esempio. Essi sono usciti dai supermercati e cercano il rapporto diretto con il produttore. È questa probabilmente la strada più sicura e più feconda di sviluppi, ma, in attesa che le regole del commercio siano completamente rivoluzionate (un processo già in atto), occorre pensare comunque alla maggioranza dei consumatori (non ancora autorganizzati e spesso male informati dai media). Per loro gli scaffali della Coop o delle altre catene della grande distribuzione, sono le biblioteche più a portata di mano ed è lì che la scrittura e la rilegatura del volume (marchio e confezione del prodotto) giocano un ruolo determinante.
Ovviamente il prodotto reclamizzato e il marchio ben studiato sono avvantaggiati, ma non è alle agenzie di immagine pubblicitaria o di marketing che mi riferisco, parlo dei marchi di qualità, di tutela, di garanzia, di associazione, di esclusione da pericoli per problemi specifici di salute, ecc. La proliferazione di questi marchi risale a molte e giuste ragioni. Mi sembra però che il fenomeno abbia raggiunto recentemente un tetto di importanza notevole da quando si sono realmente moltiplicate le aziende agricole a conduzione biologica e biodinamica. Il fatto che sia possibile produrre senza ricorrere a diserbanti, a pesticidi, a fertilizzanti chimici di sintesi e che si possano trasformare i prodotti ottenuti senza pratiche di usurpazione dei loro caratteri fondamentali, ha aperto una questione di chiarezza informativa che si tramuta automaticamente in una questione di forte portata etica. Infatti, è emerso un evidente paradosso: non si può non essere rigorosi nella certificazione di un prodotto dichiaratamente non alterato, ma altrettanto, non è accettabile che un prodotto che ha subito (per ragioni che ora non sto a discutere) vari tipi di intervento nella fase di coltivazione e/o in quella di trasformazione non sia tenuto a raccontare la propria storia.
È a questo punto evidente che il consumatore-lettore di etichette del supermercato ha bisogno di distinguere tra prodotti naturali e prodotti che non lo sono più, parzialmente o del tutto. Il prezzo, o altre considerazioni lo spingeranno a scegliere in una direzione o in un’altra, ma egli saprà quel qualcosa in più che oggi rimane nascosto. Come spiegare l’esistenza di un marchio “prodotto senza OGM” se non immaginando che i prodotti privi di questa dicitura siano geneticamente modificati? Non sarà forse più facile imporre un marchio complessivo, unico per tutti i prodotti non dichiaratamente naturali con l’obbligo di specificare pratiche agricole e di trasformazione? Ribaltiamo la frittata una buona volta!
Esistono l’olio d’oliva e l’olio d’oliva rettificato: oggi per distinguerli si è cercato il marchio dell’olio d’oliva “extravergine” che è però apparso anche su oli non di prima spremitura. Non sarebbe stato più semplice certificare con apposito marchio di prodotto non più originale, l’olio rettificato? L’altro marchio, quello dei prodotti più naturali che si può, sta oltre la linea di demarcazione e parla un altro linguaggio. Affronto ancora una volta questo tema mentre è in corso uno sforzo, più che lodevole, di definizione dei caratteri identificativi dei modi di produrre e di trasformare i prodotti non anomali che oggi si diversificano da quelli che invadono il mercato e probabilmente stanno portando a fine corsa l’attuale esperienza umana; sono all’opera associazioni di produttori e di certificatori capaci di aprire davvero nuove occasioni di impegno e di lucida progettualità, ma ci tengo a ricordare che il loro lavoro può essere improduttivo se non si riuscirà a far capire che il marchio che ancora non c’è non è quello che stanno cercando, ma quello che ancora non è stato imposto dallo Stato ai produttori “convenzionali”.
Ribadisco quindi la necessità di affiancare alla ricerca del marchio di “correttezza” agroalimentare, quello di identificabilità immediata dei prodotti provenienti da percorsi non altrettanto impegnati. Propongo una campagna di diffusione di questo secondo tipo di marchio che non mira a colpevolizzare i sistemi agro industriali e i produttori che li imitano, quello è un problema da affrontare con l’informazione specifica e attraverso i comportamenti dei consumatori, mira invece ad ottenere un minimo logico di differenziazione che non può essere negato né in sede politica, né dagli stessi destinatari di questo marchio. È una questione di diritto che non può essere elusa dai ministeri delle politiche agricole e della salute soprattutto in una fase storica in cui il tema della tutela della salute e dell’ambiente sono ufficialmente al centro dei programmi di qualsiasi partito. L’obiezione che un conto sono i programmi e un altro sono le scelte effettive non mi trova impreparato: parlo di una campagna di richiesta motivata e condivisibile, se l’autorità investita del compito si sottrae al suo dovere ci sarà modo di valutare le ragioni e i torti legati al suo comportamento. Ormai i frutti sono maturi, se non ci faranno usare la scala potremo sempre scuotere l’albero.