“Scrupolosa è la scelta dei grappoli, durante la vendemmia, quando sono destinati alla produzione dei suddetti quattro tipi di vino. Ogni grappolo che mostri qualche difetto passa al vino comune, destinato all’uso famigliare od al servizio del fondo.
Già durante la vegetazione quando qualche vitigno si mostra sovraccarico di grappoli non si esita a sopprimerne una parte. Alla malvasia, ed al moscato Amburgo nella prima settimana di Luglio si taglia la parte inferiore del grappolo, circa un quarto; poiché l’esperienza ha mostrato che detta parte è molto più scarsa in glucosio.
Infine anche nel momento della vendemmia ha luogo questa amputazione quando si constati una sensibile differenza in ricchezza di glucosio fra le due parti del grappolo.”
Così scriveva l’Avv. Giancarlo Ageno nella sua lettera indirizzata al Dott. Prati nell’ottobre del 1941 per chiedere alle autorità di “accordare la qualità di pregiato ai vini” prodotti nel suo fondo a Rivergaro (Piacenza), fondo che già allora era denominato Stoppa. Stiamo parlando proprio dell’uomo a cui Elena Pantaleoni, oggi titolare di quell’antico fondo, ha dedicato il suo vino bianco macerato, l’uomo che ha dato alla Stoppa quell’impronta di qualità che ancora oggi contraddistingue i vini (e l’intero lavoro) dell’azienda piacentina.
Questa lettera e i documenti allegati sono un documento storico che ci rivela informazioni tecniche e agronomiche del passato, certo, ma ci fanno anche toccare con mano quella saggezza e scrupolosità contadine che andavano dalla conoscenza dei frutti e della terra fino alle scelte amministrative ed economiche dell’azienda. Sono davvero tanti i passaggi illuminanti che ci rivelano come ancora oggi sia possibile imparare dalla storia e dall’esperienza di chi ha lavorato senza tecnologia e senza la chimica di sintesi.
La lettera pare quasi un’opera letteraria, si apre con la descrizione dei vitigni impiantati e della loro origine, si chiude dicendoci che quest’opera (i vigneti di Stoppa) fu compiuta dall’Avv. Ageno e prima di lui da suo padre “piantando e ripiantando in terreni che nel 1879 erano gerbidi o magri boschi cedui“. Quando nel 1879 il padre acquistò i terreni “poche vigne coltivate alla piacentina vi si trovavano, in filari coi lunghi capi distesi lateralmente, come può agevolmente vedere chiunque in ferrovia traversi la pianura tra Voghera e Stradella.” Una viticoltura quindi votata alla quantità e non alla qualità. Quell’uomo ebbe l’intuizione (e le conoscenze) di lavorare invece su terreni magri, scelse accuratamente le piante di vitigni francesi provenienti dalla Francia e italiani. Purtroppo la filossera distrusse quasi integralmente quei vigneti del 1882 e dopo la prima guerra mondiale l’Avv. Ageno riprese l’opera del padre impiantando le stesse varietà e aggiungendone altre tre. Nota però che le viti innestate su ceppo americano danno vini dal titolo zuccherino di almeno un grado inferiore a quello che avevano le vecchie viti.
I vigneti, la qualità delle piante, la posizione e il terreno costituiscono il punto di partenza fondamentale su cui si basa il pregio dei vini prodotti. Segue l’accurata cura e vendemmia delle uve selezionate manualmente, quindi il lavoro in cantina. Ecco il racconto della vinificazione:
“A piede d’uomo si pigia l’uva nella navazza: dal conchiuma aperto casca il mosto in una tinozza, donde con pompa a mano lo si manda nei tini di fermentazione.
Quando il gettito del mosto è quasi sul finire, si ripete nella stessa navazza una seconda pigiatura: si ammucchiano le già pigiate vinacce alla metà più alta della navazza, ed a poco a poco traendole giù dal mucchio, le si pigiano ben bene nella parte inferiore della navazza. E’ ciò allo scopo che le bucce delle vinacce restino ben pestate e maciullate, e così possano nella fermentazione comunicare al vino la fragranza che esse posseggono.
Ciò fatto si separano i graspi dalle bucce, passando le vinacce attraverso una graticella di ferro; e le bucce pure si buttano nel tino dov’è il mosto.
Durante la fermentazione si fa due volte al giorno la sommersione nel mosto delle vinacce galleggianti.
Giorno per giorno si segna con gesso sul tino la diminuzione dei gradi di glucosio.
Allorché si vuole produrre vino asciutto, si svina quando il glucosio è ridotto a 2 o 3 gradi: il resto della fermentazione si compirà nelle botti.
Volendosi invece produrre vini pastosi si svina a 5 o 6 gradi e si passa in botte solforata. Per vini dolci si svina anche a 8 o 9 gradi, in botte fortemente solforata; ed al primo accenno di ripresa di fermentazione si travasa in botte ancora solforata; e così fino al freddo invernale che si lascia penetrare nel tinaio.
I vini bianchi cioè Moscato dolce e Bordò Bianco si fanno senza le bucce nel tino di fermentazione. Le bucce si torchiano appena cavate dalla navazza ove l’uva fu pigiata, ed il torchiatori cavato s’unisce al vino di fermentazione.
Le bucce fermentate ricavate dai tini ove era il mosto delle uve rosse si pigiano pur esse; il primo spremuto s’unisce alla massa del vino fino. Le ultime vanno a finire nel vino comune.”
Dalle tabelle allegate si vede come i gradi zuccherini e i gradi alcolici di questi vini non avessero nulla a che invidiare ai vini che beviamo oggi, non si trattava affatto di vini beverini e leggeri, a conferma quindi che una viticoltura di qualità era anche allora la base sostanziale di partenza per vini d’eccellenza.
L’Avv. Ageno era uno scrupoloso amministratore del proprio fondo agricolo lo si evince dalle indicazioni che scrive al fattore per la cura della vigna, dalle note sull’andamento delle annate, ma anche dalla conclusione di questa lettera:
“riconosco che questa mia azienda della Stoppa, azienda vitivinicola è più che modesta; non è fornita di macchinari moderni, i quali per il loro alto prezzo graverebbero d’un pesante ammortamento la produzione. Ma pure con semplici mezzi di vinificazione ottengo prodotti che universalmente nella città di Piacenza sono considerati come pregiati e come tali pagati.”
Non so quali fossero nel 1941 i macchinari moderni a cui si riferisce l’Avv. Ageno nella sua lettera, ma certamente molti vignaioli oggi avrebbero da imparare da lui a risparmiare sui macchinari e ad investire sull’esperienza propria e dei propri collaboratori, lasciare penetrare il freddo nel tinaio in inverno non costa nulla e svolge la stessa funzione dei coaudiuvanti impiegati oggi per la stabilizzazione del vino. Di lieviti selezionati non si parla, eppure si faceva il vino… oggi sembra incredibile!
In tempi in cui la conoscenza tra il produttore e l’acquirente era diretta e non mediata da campagne di marketing, in cui le competenze gustative delle persone non erano traviate da trash food e fast food, la conferma del valore di un prodotto poteva ancora essere misurata con il prezzo che i clienti erano disposti a pagare per averlo e quindi il fatto che le persone fossero disposte a pagare per pregiato il vino di Stoppa poteva valere come prova del pregio di quel vino.
Un enorme ringraziamento ad Elena Pantaleoni e Giulio Armani per averci consentito questo piccolo viaggio nel tempo. Di quegli antichi vigneti non ne sono rimasti molti a Stoppa, ma quello che certamente è rimasto sono un terroir speciale e una profonda conoscenza della terra, dei suoi frutti e dei suoi tempi. E vini pregiati oggi come allora.
Per saperne di più su quelle terre e quei territori vi invitiamo a visitare la pagina di Stoppa su questo sito