Per un vignaiolo misurarsi con un territorio rappresenta una sfida continua: significa tentare di riprodurlo nelle sue specificità attraverso i propri vini e comporta, oltre a una grande passione, la capacità di mettere in discussione sé stessi, le convinzioni, le scelte, talvolta addirittura interi pezzi del proprio bagaglio di esperienze. Marco Sferlazzo, titolare dell’azienda agricola Porta del Vento, tutto questo lo sa bene, come dimostrano il suo percorso e i vini che produce.
Siamo a Camporeale, in provincia di Palermo, in una vallata a circa seicento metri d’altezza mai salita agli onori delle cronache vitivinicole; qui l’uva si coltiva da sempre, ma fino a pochi anni fa la sua destinazione era quella del conferimento alle cantine sociali, quindi alla produzione massiva. Poi qualcuno – parliamo di una manciata di piccoli vignaioli – si rende conto delle grandi potenzialità di un territorio caratterizzato da una conformazione morfologica importante (con terreni sabbiosi e sciolti), buona ventilazione, escursioni termiche apprezzabili, altitudine e pendenze ideali. In particolare uno di loro si persuade delle possibilità che alcuni vitigni autoctoni avrebbero in un quadro del genere e si mette in testa di tirare fuori da questo connubio vini che sappiano essere testimonianza inequivocabile di territorio. “E’ stato allora che ho cominciato a confrontarmi con nero d’Avola, catarratto e perricone – racconta Marco Sferlazzo – questi vitigni dei quali ho fatto in fretta a innamorarmi”. Un legame facilmente riconoscibile in tutti i vini di Porta del vento, a partire da quelli a base catarratto (Porta del vento e Saharay), che ci raccontano la straordinaria capacità espressiva della quale è in possesso questo vitigno: un’uva che ha consentito al produttore di esaltare le caratteristiche del territorio in entrambe le versioni dei bianchi, quella tradizionale e quella macerata. Per il resto, Marco si limita a privilegiare l’acidità riducendo al minimo ogni intervento e a riservare una cura quasi maniacale a piante e grappoli (“Un lusso che mi è consentito dalla dimensione artigianale”, spiega).
Un discorso analogo vale per il perricone, caratterizzato da una notevole capacità di adattamento al territorio – sa esprimersi in maniera anche molto differente a pochi chilometri di distanza – e da una buona resistenza alle malattie. Come ci spiega Marco Sferlazzo, alcuni studi hanno evidenziato una sua somiglianza con il sangiovese. Da queste uve nascono un rosso e un rosato sorprendente in quanto a personalità e duttilità. Si tratta di vini “trasversali”, realizzati nel segno dell’unicità e dalla ricerca di una bevibilità mai scontata o semplicistica. Caratteristica che vale in maniera ancora più evidente per l’Ishac, rosso che rappresenta in un certo senso il paradigma della filosofia produttiva di questa cantina: un Nero d’Avola assolutamente autentico, lontano dalle interpretazioni malintese che caratterizzano la stragrande maggioranza degli omologhi al punto da far ritenere al grosso del pubblico che quello sia il vero Nero d’Avola.
Uno svilimento che Marco riconosce bene quando alle manifestazioni gli capita di sentirsi dire “Ma sicuro che sia Nero d’Avola? Non sembra”. Lui riesce a parlare di queste cose sorridendo, anche se sa benissimo come la Sicilia del vino sia una terra mortificata da diversi equivoci dovuti alle prescrizioni del marketing e delle guide. “La mia è una regione che potrebbe dare di più se solo fosse capace di rifiutare gli standard – ci racconta – qualcosa di buono si sta movendo, ma rappresenta ancora l’eccezione. Come è noto si è registrato un buon lavoro complessivo sull’Etna, ma temo l’arrivo di una speculazione perché quel territorio e quel progetto nella loro globalità fanno gola a tutti: prova ne è il fatto che il nerello, vitigno tipico etneo, si comincia a vedere in giro per tutta la Sicilia”. Porta del Vento è una di quelle realtà che hanno deciso di percorrere un’altra strada, puntando tutto sul concetto di unicità e passando per la scelta di una naturalità mai troppo ostentata. La Camporeale di Marco Sferlazzo e i suoi vitigni rappresentano uno dei punti di una “resistenza enologica” che, pur faticando, comincia a imporsi con la forza della qualità e dell’autenticità.