Abbiamo imparato a coscere Pietro Majnoni piano piano nel tempo. Il primo incontro durante un Critical Wine milanese di tanti anni fa… Pietro è il titolare della Fattoria Majnoni Guicciardini sulle colline del Chianti Senese in Val d’Elsa. Qui conduce un’azienda agricola composta oltre che dai vigneti, da seminativo e boschi.
Puoi raccontarci il tuo percorso?
Pietro Majnoni: Io sono nato sentimentalmente nel 68. Il mio percorso di studi a Roma ed è coinciso con il periodo tra il Sessantotto e il Settantasette e quando sono arrivato in campagna ero totalmente impreparato perché ero più rivoluzionario che agricoltore. Avevo studiato economia a Siena e ho lavorato per anni nella cooperazione occupandomi di economie rurali africane. Nel 1985 ho cominciato a rivolgere la mia attenzione all’agricoltura, ma quando nel 1992 ho preso in affitto l’azienda di famiglia, la Fattoria Majnoni Guicciardini, mi sono reso conto che mi servivano davvero tutte e due le mani su questo fronte e ho abbandonato ogni altra attività. Per 15 anni ho cercato di imparare e di colmare il gap di esperienza contadina che mi mancava e solo a partire dal 2000 ho cercato di ricongiungere queste due parti della mia vita passando all’agricoltura biologica.
La conversione al biologico ha coinciso con una maggiore attenzione alla vigna (e meno alla cantina) e mi ha dato molte soddisfazioni: con la cantina ero arrivato a un livello di qualità che non riuscivo ad oltrepassare e non mi soddisfaceva. Dopo avere preso in considerazione diverse possibilità ho scelto di curare diversamente la vigna e sono riuscito ad andare avanti. Ho messo a punto un sistema di doppie vendemmie che si adatta alla zona in cui mi trovo e che è più fertile rispetto a quella del Chianti classico. Con questo sistema anche nel 2002 ho fatto un bel vino. A quel punto ho capito che in qualsiasi stagione avrei potutto produrre un vino di qualità, magari meno ma sempre di qualità. Sono diventato biologico perché apprezzavo la qualità professionale dei produttori biologici, mi sembrava più interessante e appassionante. Un amico orticoltore vicino a Roma dice sempre che l’agricoltura tradizionale tende a rendere stupidi i contadini, mentre il biologico tende a renderli più intelligenti. Da quando ho iniziato a praticare l’agricoltura biologica hanno smesso di passare i rappresentanti, perché sanno che non compro più niente, ne diserbanti ne antiparassitari: con zolfo e rame mi sono difeso altrettanto bene che con le ultime molecole in distribuzione che i vari rappresentanti mi proponevano sempre.
Ci sono differenze di costi tra l’agricoltura biologica e quella convenzionale?
Pietro Majnoni: Non penso che ci sia una differenza sostanziale di costi nella produzione. Semmai il problema sta nella filiera del biologico che è tuttosommato improvvisata e non ancora abbastanza solida da valorizzare al massimo il lavoro dei produttori.Viviamo un momento in cui il mercato è determinato dalle esigenze della distribuzione e non da quelle dei produttori ne tantomeno da quelle dei consumatori. Se i produttori riuscissero ad essere più presenti con le loro esigenze sul mercato forse cambierebbero, ed è resposabilità dei produttori riuscire a cambiare le cose. I piccoli produttori sono anarchici per naturale tendenza e quando li metti insieme e ci sono sempre almeno sei idee differenti da coniugare, negli altri settori produttivi esistono grosse concentrazioni, ad esempio Fiat nel settore auto, Della Valle in quello delle scarpe, Benetton, etc. In agricoltura e soprattutto nel vino i gruppi più grandi hanno il 3 o 4 % del mercato, come può fare allora il piccolo produttore a cercare di inseguire quella certa fascia di prezzo o di valore che c’è nel settore della commercializzazione?
Intendi dire che occorre trovare il modo per i piccoli produttori di entrare nella grande distribuzione?
Pietro Majnoni: No, che bisogna introdurre degli elementi che rispondano alle logiche dei produttori e non dei commercianti, sennò siamo sempre soggetti a una logica del distributore, per cui le guide, i corsi dei sommelier, un modo di proporre il vino che è utile, ma non da solo. Deve essere affiancato da un’altra modalità che sia più rispettosa delle esigenze del produttore e che crei solidarietà tra produttore e consumatore. Un esempio: un tempo se si andava in cantina e si prendeva il vino a prezzo di costo, adesso questo è abbastanza difficile perché il produttore si prende la responsabilità di non fare concorrenza al suo distributore, perché? Questa è una delle cose che rientrano in questo rapporto un po’ stupido di subordinazione. Il prezzo sorgente che aveva proposto Veronelli rientrava in questa logica di trasparenza nella catena che porta il prodotto dal produttore al consumatore. Non sono contro la distribuzione, ma la vedo un po’ come un circo dove il vino è considerato un una sorta di divertissement, va bene che ci sia, ma non vorrei che questo, alimentato dal sistema delle guide, fosse l’unico modo di comunicazione tra produttori e consumatori. Se si riesce a creare questo rapporto diverso il produttore può partecipare un di più alla fase di commercializzazione e il consumatore può spendere un po’ meno, ma soprattutto creano possibilità di crescita per le intere zone agricole come è successo su grande scala con i presidi creati da Slow Food che mettendo in contatto le zone di produzione con il consumatore hanno preservato dei prodotti tipici dalla scomparsa.
Mi sembra un passaggio davvero importante e ci torneremo su in modo più approfondito, vorrei chiederti però ancora due cose su di te e sulla tua azienda. Spesso chi fa vini buoni è anche un attento bevitore, è così anche per te?
Pietro Majnoni: Come bevitore non ho un naso finissimo, quindi quando lavoro in cantina uso il mio enologo come naso, è la sua funzione prevalente. Non orienta le mie scelte, ma rappresenta in qualche modo la mia coscienza evoluta. Ho invece voluto affidarmi a prodotti che siano schietti, se il lavoro in vigna è fatto bene e i vini sono poco artefatti in cantina possono essere di diversa struttura (vini più o meno importanti) ma sono comunque sempre interessanti. In questo contesto il lavoro dell’enologo, o naso raffinato, diventa una questione di decidere i tagli che si fanno tra le diverse partite che si hanno in cantina. Con questa impostazione si ottiene un vino che è sistematicamente differente dagli altri e che quindi ha un’identità che nessuna comunicazione pubblicitaria o di marketing può garantire. A questo sono stato abbastanza fedele negli anni sia per necessità che per scelta. Vinifico solo uve mie e per i nuovi impianti ho scelto accanto al Sangiovese delle varietà toscane meno importanti Malvasia nera, Cigliegiolo, Colorino e altre più arcaiche, Fogliatonda, Pugnitello e Abbrustina, vitigni minori che alcuni vivaisti ancora propongono e che aumentano il carattere di originalità e di legame al territorio dei vini. Ci troviamo ancora in quella logica per cui l’agricoltura convenzionale guarda avanti ai nuovi sistemi e l’agricoltura biologica guarda a quello che è stato fatto nel passato per capire quello che ha funzionato. Ricorrere alla memoria e all’esperienza è importante, è una risorsa che dobbiamo usare di più: molte soluzioni sono state trovate nel passato e oggi dovremmo riscoprirle. Dalla migliore delle vigne vecchie invece sto prendendo le marze e rifacendo le barbatelle, ma lo sto facendo solo su quella vigna, non sono ancora così autonomo. Sto cercando di curarla invece che estirparla.
La Fattoria Majnoni Guicciardini è una realtà agricola dove non si fa solo vino, avete coltivi e boschi, è stato un caso o una scelta?
Pietro Majnoni: Ho dovuto confrontarmi con una realtà che preesisteva. Ma mi sono accorto nel tempo che questa impostazione porta diversi vantaggi, ad esempio si riesce ad assicurare continuità di lavoro a tutto il personale nel corso dell’anno, il lavoro sulla vigna richiede in alcuni momenti interventi rapidi e massicci, il fatto di avere più attività mi permette di spostare il personale sulla vigna quando ce n’è bisogno ma di avere con loro un rapporto continuativo. Sul seminativo sono in una fase di ricerca, sto portando avanti 12 colture differenti che è molto dispersivo ma serve a me come ricerca. Mentre mi interessa di più il lavoro sul bosco. Il bosco è una risorsa molto trascurata, la fine della mezzadria ha portato all’analfabetismo più totale della gestione del bosco. Vorrei poter colmare questo vuoto culturale e ritrovare una forma di gestione del bosco che non sia solo di rapina, oggi infatti è considerato come pezzo di terra dove lasciar pascolare gli ungolati o da dare a dei tagliatori che non lo riconoscono più come risorsa. Vedremo dove mi porterà questa strada.