Nato da un incontro con Nadia Verrua alla Cascina Tavijn, questo articolo racconta di un vitigno antico e della terra che lo ha accolto e conservato fino ai giorni d’oggi: il Ruché, storico vitigno del Monferrato insieme allo Zanel. Una storia di uomini e terra, di viti e vitigni sullo sfondo dell’abbandono delle campagne del secondo Novecento. Un vino che ha saputo ottenere grandi riconoscimenti con il suo piccolo nome… Come ogni storia che si rispetti, cominceremo con un “C’era una volta”…
C’era una volta il Tanaro
Acque oscure e torbide. Scorrono nella sconfinatezza della Valle del Po, celando i segreti e i corpi della gente di queste parti. Il Fiume dei Suicidi – così lo chiamano – che nel silenzio della Storia, traccia un solco indelebile nel cuore del Piemonte: separa l’Est dall’Ovest, il sacro dal profano. Sancisce come un giudice implacabile il destino e le opere dei piemontesi, divisi nell’animo tra il “di qua” e il “di là” della sua corsa (dai racconti de “La messa dei villeggianti”-1959- di Mario Soldati). Ed è qua che inizia la nostra storia, o meglio, di qua dal Tanaro. Precisamente, dove il Monferrato guarda alle porte di Asti: il comune di Castagnole Monferrato. Risalendo il fiume, ci si rende conto della nebbia. Una presenza che pare eterna, mentre pesa sulla pelle l’umida certezza della spaccatura tra il Monferrato e l’Astigiano: ormai liquida, colata fin nelle membra della gente, nei suoi pensieri, nei suoi usi, nelle sue strategie. In questi luoghi, dove la frammentazione si fa radice e stile di vita, Castagnole Monferrato rappresenta la Terra di Mezzo.
Si erge come vessillo di unità d’intenti e di cooperazione, e fornisce un esempio di spirito di appartenenza vissuto con la semplicità e la forza di chi sente le radici prima ancora di tracciarne i confini. In che cosa gli abitanti di Castagnole si riconoscono? Qual è il tessuto che da sempre tiene insieme le vicende familiari, quale il principio delle storie di vita? E’ la vite. La sua radice che cresce è il simbolo di una piccola civiltà che ha basato la propria esistenza sulla cura della vigna. Ne ha compreso i ritmi e i valori, su di essi ha cresciuto i propri figli. E’ come se tra gli abitanti di Castagnole e la vite ci fosse un accordo spontaneo di condivisione degli spazi e di fratellanza, che è difficile abbandonare. Si tratta di un legame affettivo e di sussistenza, che in quanto tale, deve essere tramandato nel tempo. La nostra è una storia di amore: per la coltivazione della vite, per il Territorio, insieme compagni e garanti di vita. E lo farà partendo dal punto di vista di chi osserva i passi dell’uomo in vigna e ne riceve le cure (o ne subisce le scelte): la vite stessa. Ruchè e Zanel appunto, vitigni autoctoni .
Facciamo ora un passo indietro. E’ il 1850 circa, i nostri protagonisti vivono a stretto contatto con l’uomo, ne rappresentano il sostentamento ma anche l’intrattenimento. Si può dire, senza timore di esagerare, che fossero vitigni “di famiglia”. Facevano parte di ciò che si teneva per sè, quei prodotti pensati e trasformati per le esigenze della famiglia (non dei padroni, ad esempio, e neanche del mercato). Il Ruchè, vista la sua caratterisitica capacità di raggiungere gradazioni abbastanza elevate (min 13% vol. costanti) e il suo bouquet fresco e succoso, era vinificato dolce, ed era il vino della festa, degli eventi di ritrovo familiare: il collante e il motivo dei tessuti relazionali. Castagnole Monferrato, comune di adozione del Ruchè, contava un numero di impianti maggiore rispetto alle zone limitrofe. Si parla infatti, allora come oggi, dei sette comuni del Ruchè: Castagnole Monferrato, Scurzolengo, Portacomaro, Grana, Montemagno, Viarigi e Refrancore.
Guardando dall’alto, i comuni tutti assieme, cingono una collina che pare una roccaforte e rimanda come uno specchio del tempo, alle alleanze e alle lotte future. Così, dove il Ruchè riuniva e addolciva, lo Zanel colmava e correggeva. Di natura assai più dimessa, votato alla condivisione, lo Zanel era il fedele aiuto dell’uomo nelle vinificazioni destinate alla commercializzazione. Aveva la dignità, come molti altri cugini autoctoni, di completare le varietà ritenute dal mercato maggiormente pregiate, ma non del tutto rispondenti al gusto in voga. Barbera in primis e Grignolino a seguire, erano le star, ma mancavano di certa rotondità. La naturale acidità che questi vitigni sviluppano da sempre nel territorio monferrino, richiedeva allora un affinamento urgente dei lati più spigolosi. L’acidità incredibilmente edulcorata, il carattere deciso, la chioma naturalmente spumosa (vitigno simile al Lambrusco) faceva di Zanel la via più indicata alla risoluzione del problema, a garanzia della naturalezza del prodotto finale. San Desiderio (in fraz. Calliano) era il paese di origine, che contava in tutto 100 viti di Zanel.
Tuttavia, in questo clima di equilibrio rassicurante, immobile, irreale per la nostra contemporaneità, qualcosa stava per accadere. Una calamità, che avrebbe trasformato tutto: la terra, la vite, l’uomo. Una presenza sottile si insinuò nelle esistenze, costringendole all’estinzione. Un’epidemia. La grande epidemia di filossera. Morbo implacabile, la filossera arrivò dal continente americano per annientare le vigne e tutte le varietà autoctone: inghiottì come un buco nero i gesti antichi di cura, disegnando nuove priorità, una nuova civiltà, quella dell’esodo. I terreni sembravano campi di battaglia e i paesi senz’anima. La terra non alimentava più i cicli di vita, ma si avvertiva nella gente il rifiuto e la paura per una natura demoniaca, da rifuggire. Da questo momento in avanti, le vigne subirono oltre alla malattia, il progressivo abbandono da parte dell’uomo, emigrato nelle grandi città in cerca di un’alternativa. La filossera divise ciò che prima era unito e in accordo. Sulla nostra piccola collina, furono in pochi a rimanere. Qualcuno ritornò dopo qualche anno passato all’estero a cercar fortuna nelle fabbriche e si mise nuovamente a coltivare la terra. Nostalgia per il passato, ma privo della fiducia che c’era allora. La vita nei comuni continuò così, senza slanci e soprattutto senza legami di territorio, fino al 1980. Sulla nostra piccola collina, furono in pochi ma illuminati…
Nella pianura frammentata e offuscata dalla nebbia dell’oblio culturale, una voce si leva, quella del parroco di Castagnole, a chiedere il riconoscimento di 500 pianticelle sopravvissute e mantenute in vita da un vivaista del paese. Si trattava di Ruchè, che nel suo ripresentarsi, scuote animi assopiti e reimpianta radici. Ecco che i sette comuni si fanno realmente roccaforte e richiedono la Doc, pronti a sfidare con il loro Ruchè un mercato ormai appiattito dal gusto internazionale, pronti a ricominciare da dove si era lasciato. Un nuovo fronte si aprì, quello della sperimentazione. I produttori di Ruchè di Castagnole Monferrato dovettero reimpostare il lavoro, recuperando insegnamenti perduti, mediando tra le caratteristiche del vitigno e le prerogative imposte dalla conquista della denominazione. Fra i tentativi di recupero, si è dato un forte messaggio di continuità e di indipendenza, che ha ripristinato il legame inscindibile tra il territorio, l’uomo e i suoi prodotti, rendendo naturale e onesto il passaggio dal vecchio al nuovo. E’ questo che si sente assaggiando il Ruchè di Castagnole: l’onestà e l’originalità di fondo.
Oggi, la produzione di Ruchè si è intensificata anche in tutti i comuni attorno a Castagnole ed è andata maggiormente raffinandosi. Ci soffermeremo su uno in particolare, Scurzolengo. Lì vi abita una famiglia, la cui cantina ha festeggiato a fine giugno di quest’anno un secolo di vinificazione, mai abbandonata. Cascina Tavijn è il nome dell’azienda, rigorosamente familiare. Oltre a rappresentare un esempio di eroicità e resistenza, risulta essere fra i più consapevoli produttori di Ruchè e unici conservatori di una piccola vigna di Zanel (300 barbatelle), pronti nel prossimo 2010 a sperimentarne la vinificazione in purezza. “Tavijn”, sta per Ottavio, il nome del bisnonno cui si deve la nascita della cantina. Ottavio Verrua (il nipote), insieme alla moglie Maria Teresa e alla figlia Nadia, gestiscono oggi l’azienda con la stessa dedizione di 100 anni fa. La loro testimonianza vale come un reperto storico, perchè di vitigni storici si sta parlando e meglio di loro nessuno potrebbe spiegarne le proprietà e le scelte di vinificazione.
Ecco svelati i narratori della nostra storia le cui parole appassionate ci guideranno ora alla scoperta del Ruchè. “Dove il Grignolino è anarchico, il Ruchè fa le fusa” dice Nadia Verrua. Espressione d’affetto, che descrive un vino “di casa”, accogliente, da sempre sulle tavole delle famiglie. Secondo Nadia, questa energia viene dalla vena amabile del Ruchè: un semi-aromatico, con gradazioni alcoliche alte e acidità non marcata. Si tratta quindi di un vino poco versatile, non adatto a tutti i pasti, non per tutti i palati.
Cos’è che rende il Ruchè così speciale, allora? “L’obiettivo è quello di ottenere un Ruché buono ma anche sano, buono ma anche onesto nel gusto, ovvero dove vi si possano ritrovare tutte le caratteristiche del Ruché: profumi, freschezza, bevibilità. Credo che questa sia una buona terra per il Ruché, un misto fra arenaria, sabbia con vene di argilla e zone leggermente più calcaree. Sono terre che, al di là della tradizione, hanno sempre saputo regalare vini freschi, fruttati, vivi e di buona bevibilità, anche nelle annate più calde”. Nonostante sfidi la tradizione del “vino buono perchè popolare”(cioè sempliciotto e conforme al gusto più immediato), il Ruchè conquista gli animi, ti sa parlare dentro. Se vinificato correttamente esprime tutta la sua specificità varietale e perciò è vero e stupisce per la sua schiettezza, la sua vivacità.
Il Ruchè è prima di tutto “una scelta di territorio, oltre che di tradizione”. Secondo Nadia, questo è un principio da tener presente lungo tutta la vinificazione del Ruchè. In vigna, le scelte ricadono sul ridurre al minimo l’intervento dell’uomo: “bisogna comprendere la vigoria della pianta, ovvero la sua potenzialità di crescita, soprattutto lo sviluppo dell’apparato fogliare. La si lascia sfogare, perchè possa condurre da sola il grappolo alla completa maturazione”. Gli interventi consigliati sono i trattamenti in zolfo, in quantità maggiore rispetto a quelli in rame, in quanto il vitigno di Ruchè è resistente all’oidio e alla peronospera. In cantina, si predilige l’acciaio o il cemento vetrificato. L’elevata capacità di conservazione di questi materiali, li rende essenziali al contributo in nettezza e pulizia del vino.
Tuttavia, una sperimentazione di affinamento in legno (botte grande) si fa strada nelle convinzioni di Nadia e di Ottavio: “Non pensiamo ad un vero processo di invecchiamento in legno, il Ruchè è alcolico ma non ha un grande corpo. Va bevuto fresco, non bisogna attendere più di 3 o 4 anni. Diremmo piuttosto che bisogna utilizzare ciò che si ha al meglio. Il legno è uno strumento usato da sempre per il contenimento del vino e nel caso del Ruchè, diminuirebbe il numero dei travasi, favorendo invece l’apertura dei profumi. L’alcol tende a chiuderli. Inoltre allungherebbe la sua presenza in bocca, mentre diminuirebbe l’uso del bisolfito”.
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Un ringraziamento sia ad Irene Calamante per avere raccolto questa storia che a Nadia ed Ottavio Verrua di Cascina Tavjin per la disponibilità a raccontarla. Grazie infine a Nadia ed Ottavio per la loro caparbia difesa di questi antichi vitigni.
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