vini, persone, territori, tradizioni

vini, persone, territori, tradizioni

Te la do’ io l’agricoltura biologica…

Di Emilio Falcione. Oggi Emilio Falcione è un vignaiolo e un contadino sulle colline toscane con la sua Azienda Agricola La Busattina, ma a questo è arrivato attraverso un lungo percorso personale. Qui ci racconta il proprio percoso da studente a certificatore ad agricoltore per approdare infine all’agricoltura biodinamica in vigna e alla vinificazione naturale in cantina. Ma sullo sfondo della sua storia personale toviamo il racconto di come si è evoluto il settore dell’agricoltura biologica in Italia dagli anni Settanta ad oggi.

I vigneti dell'azienda agricola la Busattina

L’agricoltura biologica in Italia dagli anni Settanta ad oggi

Iniziai ad occuparmi di agricoltura biologica, quando l’agricoltura biologica ancora non esisteva. Tra la fine degli anni Settanta ed i primi degli anni Ottanta, ero uno studente dell’Istituto Tecnico Agrario Statale di Roma, e non accettavo l’ineluttabilità di un’agricoltura tutta chimica e veleni, quale allora mi veniva insegnata. Iniziai a ricercare tutte le informazioni, articoli di riviste, libri ( come “La rivoluzione del filo di paglia” di Fukuoka o i testi di biodinamica dell’editrice antroposofica) che iniziavano ad ipotizzare metodi alternativi di agricoltura organica, e tentai, senza successo di riportare queste informazioni nella scuola: mi scontrai contro un muro di gomma. Appena diplomato mi iscrissi all’università, ma contemporaneamente iniziai a collaborare con il Coordinamento Laziale Agricoltura Biologica (CLAB), ed a svolgere il servizio civile sostitutivo, presso il Centro Internazionale Crocevia di Roma, o.n.g. che si occupava di agricoltura nel Sud del Mondo. Il CLAB era uno dei tanti coordinamenti regionali, che nascevano in quel periodo in tutta Italia, e che di lì a poco diedero vita (insieme ad AAm Terranuova) alla Commissione Nazionale “Cos’è biologico?”, dai lavori della quale nacque negli anni 1986-1987 l’AIAB. Con il CLAB si elaboravano le prime norme di agricoltura biologica, si faceva assistenza tecnica, si tenevano corsi di formazione e si organizzavano (sin dal 1985) i primi mercati contadini e di produttori biologici chiamati Il Vignarolo nelle piazze romane di S. Maria in Trastevere e Campo de’ Fiori, che richiamavano i primi produttori bio del Centro Italia. Il Vignaroloera una figura tipica della campagna romana, bracciante agricolo, quasi sempre donna, che per arrotondare il salario raccoglieva frutti ed erbe spontanee (la cicoria) negli incolti ma anche nelle vigne dei Castelli Romani, per rivenderli nella città di Roma. In quell’epoca le Regioni iniziavano a stabilire le prime norme come la L.R. 51/89 del Lazio. Durante il servizio civile, a Crocevia si fecero campagne di informazione sull’erosione genetica in agricoltura, denunciando il conseguente rischio di sparizione di razze e varietà fondamentali per la sopravvivenza e l’autonomia dell’agricoltura contadina. In quegli anni a seguito di vari disastri ambientali come Seveso, Cernobyl, Bopal, l’attenzione verso le tematiche ambientali e della salute andavano crescendo, anche se di pari passo con le esternazioni dei vari docenti universitari i quali definivano la nascente agricoltura biologica come “pura filosofia senza alcuna applicazione pratica”. Nel 1985 in Italia vi erano ancora due centrali nucleari in funzione (Borgo Sabotino e Trino Vercellese) ed una terza in costruzione, Montalto di Castro ed era attivo un Movimento contro questo tipo di energia.

La svolta dell’agricoltura biologica negli anni Novanta

Con l’AIAB (ma anche con Demeter/Codex) per oltre dieci anni fui ispettore per il controllo delle aziende biologiche. Ho vissuto l’epoca dell’entrata in vigore del reg. cee 2092/91che ha rappresentato una vera rivoluzione, non tanto dal punto di vista normativo, quanto organizzativo e sociale. Prima del reg. Cee 2092/91 ogni regione aveva un proprio coordinamento di agricoltura biologica, fatto di tecnici, agricoltori e consumatori che lavoravano con passione e spesso senza alcuna retribuzione: con l’arrivo della normativa europea e dei conseguenti contributi, questa realtà venne spazzata via per far posto a dei burocrati appena usciti dall’università, discenti di quei Baroni che fino a poco prima definivano l’agricoltura biologica “filosofia”, ma che ora alla luce dei nuovi contributi avevano rapidamente cambiato idea.

Dal 1992/1993 si ebbe quindi una crescita esponenziale delle aziende bio, che rincorrevano la nuova opportunità economica. Il sistema di controllo che derivò dalla applicazione nel nostro paese della normativa europea, presentò sin dagli inizi grossi limiti. Ancora oggi il sistema di controllo è pagato dai controllati (agricoltori) direttamente ai controllori (O.d.C.) che essendo più di dieci sono in libera concorrenza tra di loro. Questa concorrenza, fatta soprattutto di riduzione dei costi del servizio, spinge la qualità di quest’ultimo sempre più in basso, riducendo al minimo il controllo.

L’agricoltura biologica in pratica in piccole e grandi aziende

Allora si rafforzò la necessità di creare una mia azienda bio e nel gennaio ’90 acquistai La Busattina. L’azienda era abbandonata da 5 anni, in gran parte di essa i rovi avevano preso il sopravvento, ma era in una zona incontaminata, nelle colline maremmane a 460 m s.l.m., circondata dai boschi, vi era una casa, una cantina, un trattore con qualche attrezzo e per me andava bene. Vi erano 7 Ha di vigneto in gran parte Trebbiano Toscano, impiantato nel ’76 per conferire le uve alla locale Cantina Sociale: impianti fatti per produrre tanto, sesti ampi e portainnesti vigorosi. Iniziai a ristrutturare la casa, a sostituire i vigneti non recuperabili, impiantando varietà rosse locali, come Sangiovese e Ciliegiolo, con sesti più stretti e portainnesti poco vigorosi. In quei primi anni vendevo metà delle uve e l’altra metà le trasformavo in vino da vendere sfuso. Ciò fino al 2000 quando finalmente ristrutturai anche la cantina ed iniziai a trasformare tutte le mie uve ed ad imbottigliare tutto il vino prodotto. Nel 2000 conobbi Elisabetta, mia moglie, e da allora il progetto della Busattina, lo portiamo avanti in due. Inserii sin dal primo anno degli animali in azienda: suini di Cinta Senese, pecore sopravvissane, capre Girgentane, asino dell’Amiata, galline livornesi, ecc tutte razze in via d’estinzione allevate allo stato brado nel bosco e nei prati dell’azienda. Sin dall’inizio applicai il metodo di agricoltura biologica, inerbimento permanente del vigneto, concimazioni organiche ecc, ma visitando, per il mio lavoro di ispettore, molte altre aziende bio, man mano cresceva in me la consapevolezza dei limiti del metodo. Notai che l’agricoltura biologica aveva dei risultati apprezzabili in aziende grandi, con la presenza di molto bestiame (e tanto letame), con rotazioni che prevedevano regolarmente leguminose foraggere, oppure nel caso di colture permanenti, adulte, quali vite ed olivo dove la pianta aveva avuto modo di espandere ed approfondire le radici. In tutti gli altri casi, come ortaggi, cereali, giovani impianti di vite e fruttiferi, si assisteva ad una semplice agricoltura “di sostituzione” cioè ad una molecola chimica se ne sostituiva una organica, spesso originata dall’agricoltura convenzionale come la pollina degli allevamenti intensivi o gli scarti di macellazione o lavorazione del cuoio. Nelle colture annuali l’agricoltura biologica “funziona” proprio quando si usano questi concimi azotati organici (fino al 10% di N) che dalla pianta vengono assorbiti allo stesso modo dei sali chimici, ossia direttamente senza passare dall’humus. Il limite dell’agricoltura biologica è tutto qui: è certamente un’agricoltura molto più pulita dell’agricoltura convenzionale, ma in qualche modo dipende da quest’ultima, come fornitrice della base per i concimi organici. Ma soprattutto l’agricoltura biologica non riesce a far crescere l’humus dei terreni, e non riesce a far alimentare le piante attraverso quest’ultimo, non riesce a sganciare l’azienda agricola dagli interessi delle aziende chimiche e renderla autonoma.

Il passaggio all’agricoltura biodinamica

L’humus e la connessa vita ed attività microbiologica nel terreno sono il parametro per valutare l’efficienza di un metodo agronomico. Non può esserlo la sola sostanza organica: in quei terreni della pianura Padana dove si pratica la monocoltura del mais, con tanto di diserbanti chimici, concimi chimici ed insetticidi, vi è la più alta concentrazione di sostanza organica, ma sono terreni morti, che inacidiscono progressivamente! Per queste ed altre considerazioni nel 1997 iniziai a praticare l’agricoltura biodinamica. Avrei potuto iniziare prima ma in quel periodo si realizzarono tre condizioni favorevoli: – il nuovo impulso dato al metodo biodinamico, dagli scritti e dalle conferenze dell’agronomo australiano Alex Podolinsky; – la disponibilità di ottimi preparati biodinamici prodotti da Carlo Noro (Labico (RM) Tel 06 9511243); – il mutare dei vertici della Demeter e dell’Associazione per l’agricoltura biodinamica che determinarono una maggiore apertura verso l’esterno. Iniziai a lavorare il vigneto, nei periodi adatti, ed a seminare a file alterne colture da sovescio, inizialmente solo favino, poi miscugli sempre più complessi. Quando praticavo l’inerbimento rompendo il cotico erboso trovavo un primo strato(di 2-5 cm), abbastanza scuro con presenza di sostanza organica, ma al di sotto ritrovavo un terreno chiaro e compattato e le radici della vigna che in cerca di aria, luce, acqua e nutrimento crescevano verso l’alto. Ora lavorando il terreno del vigneto lo trovo tutto uniformemente scuro poroso, pieno di vita, almeno fino ai 40-50 cm, con le radici che scendono verso il basso. Nel vigneto oltre ai preparati biodinamici utilizzo solamente zolfo puro e rame sotto forma di ossicloruro mantenendomi entro i 2 Kg di rame metallo/ha per anno. Vi sono sperimentazioni su alternative al rame, come il latte. Ma se usiamo il latte come anticrittogamico ed i cereali come combustibile o carburante, il futuro che ci si prospetta è inquietante. Sul rame vi sono periodicamente delle campagne di disinformazione, e si arriva addirittura ad assimilarlo ai metalli pesanti! Certamente ha la brutta abitudine di accumularsi nel terreno, ma quantità di 2-3 Kg /ha/anno possono essere facilmente tollerate e smaltite. Ho il sospetto che attaccando il rame, il più economico perché a basso input tecnologico, si vogliono favorire prodotti dell’industria hi tech molto più costosi e remunerativi per chi li produce. Mi ricordano altre campagne, come quelle contro le barrique o i trucioli (che non utilizzo, sia chiaro) portate avanti da chi sembra dimenticare quali altre sostanze ben più pericolose vengono immesse nel vino. Nella gestione del verde in vigna cerco di rispettare il più possibile l’equilibrio naturale della pianta convinto che ciò si rispecchi in un equilibrio dell’uva e del vino; nessuna cimatura, ne sfogliatura, solamente sfemminellature (rami anticipati). Ho sempre inteso la fermentazione, la vinificazione, come un processo naturale che va solamente accompagnato e mai stravolto. La vendemmia è manuale e scalare, in un filare spesso ci si passa anche due o tre volte per raccogliere solo i grappoli perfettamente maturi. La fermentazione avviene spontaneamente con i lieviti naturali e non vi è né refrigerazione né riscaldamento dei mosti. Il freddo è una forza di morte che mal si addice ad un processo vitale come la fermentazione. Così come mi sembra un’assurdità fermentare delle uve in anfore interrate, sotto il livello del terreno e dirsi biodinamici! Nessuna chiarifica, nessuna stabilizzazione, solamente i vini bianchi vengono leggermente filtrati. Unico additivo aggiunto è la SO2 (anidride solforosa) fino ad un massimo di 50mg/l. Utilizzo barrique che hanno dai tre ai sette anni e botti in rovere unicamente per far respirare il vino. Produco vino “naturale” da ormai otto anni ma ci sono arrivato gradualmente. All’inizio mi facevo assistere da un enologo, ma non ho mai accettato di usare enzimi, macchine per concentrare, tagli con altri vini “miglioratori”, acido metatartarico ecc. Pagavo un consulente per fare il contrario di ciò che mi diceva, e mi limitavo solamente a qualche chiarifica ed a correggere l’acidità dei vini. Poi con la pratica biodinamica queste correzioni non si sono rese più necessarie e decisi che anche l’enologo era un accessorio superfluo: soprattutto gli contestavo l’incapacità a valorizzare la materia prima e la tendenza a produrre vini secondo un suo standard personale. Cerco di produrre dei vini puliti, corretti, senza ossidazioni o acidità volatili eccessive, oltre che buoni. Vi è l’idea diffusa che i vini naturali debbano avere tutti questi difetti, e mi convinco sempre di più che certe ossidazioni o volatili eccessive siano volute, quasi fossero la garanzia di genuinità e naturalità. Alcune “puzzette” si potrebbero risolvere facilmente con qualche travaso in più o sostituendo qualche vecchia botte deteriorata. Aziende con impianti frigo, filtri, tecnologie avanzate ed enologi in cantina come possono produrre vini difettosi? Ora il vino rappresenta il mio reddito maggiore, ma comunque l’ho sempre considerato come una componente, come le altre, di un unicum, rappresentato dall’azienda agricola, dall’organismo agricolo. Per questo a chi mi chiede di descrivere i miei vini, spesso lo faccio iniziando a parlare degli animali che allevo o dei preparati biodinamici… Oggi tutti all’improvviso si scoprono produttori di vini “naturali”, biodinamici, e c’è chi per accreditarsi come tale, organizza convegni nazionali, chi dice e scrive di aver imparato il metodo tanti anni fa all’estero, chi nel proprio blog scrive di sperimentarlo da anni ed a ogni fiera tiene in vista sul tavolo i testi di Steiner di fianco ad un vaso di vetro con un terreno morto… A tutti questi illuminati sulla via della nicchia di mercato chiedo se sono disponibili a sottoporre i loro vini alle analisi della cristallizzazione sensibile per verificare la qualità “vivente” dei loro vini. Da parte mia negli ultimi imbottigliamenti ho iniziato ad utilizzare le cosiddette “etichette trasparenti” perché credo che siano molto più veritiere e garantiscono molto di più il consumatore delle cerificazioni ufficiali (biologico, doc, dop, igp) perché impegnano in prima persona il produttore. Penso questa sia la strada da percorrere per le piccole e medie aziende se vorranno sopravvivere: l’etichetta “trasparente” è un’opportunità che solo noi piccoli produttori di qualità, possiamo utilizzare, e un’occasione da non perdere! Oggi la priorità è la difesa dell’agricoltura contadina, ma si tratta più di una autodifesa all’interno della quale credo vi debba essere il passaggio graduale ad un’agricoltura organica e per finire all’agricoltura biodinamica. Un anno fà insieme ad altri piccoli produttori, abbiamo fondato l’Associazione Contadini Critici, con lo scopo di realizzare una rete fattiva di collaborazione e difesa dell’agricoltura contadina, mettendo in rete tramite una lista di discussione, diverse realtà in tutta Italia. Chi fosse interessato può chiedere informazioni scrivendo alla mail: contadinicritici@inventati.org

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