vini, persone, territori, tradizioni

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Viticoltura sostenibile e salvaguardia del territorio

Riprendiamo il bell’intervento di Pietro Majnoni Guicciardini alla tavola rotonda “Viticoltura sostenibile e salvaguardia del territorio” che si è svolta ad Agazzano (PC) il 6 marzo 2010 come apertura di Sorgentedelvino Live. Pietro è il titolare della Fattoria Majnoni Guicciardini, un’azienda agricola biologica di 200 ettari sulle colline della Val d’Elsa Fiorentina, di fronte a San Gimignano. Qui il vino è solo una parte del lavoro e il vigneto si integra con l’intero territorio, ci sembrava la persona ideale da cui farci raccontare il lavoro di salvaguardia che ha messo in pratica…

pietro majnoniQuindici anni fa ho ricominciato a fare impianti di vigneto nella mia terra dopo 18 anni che per ragioni di bilancio avevamo fermato tutti gli investimenti e ho chiesto una consulenza proprio a Francesco Lizio che ha parlato qui prima di me per ottenere delle informazioni sui miei terreni.

Tradizionalmente in Toscana non esisteva un vigneto in forma intensiva, c’erano solamente filari che separavano porzioni di seminativi, il vigneto in forma intensiva è arrivato negli anni 60 e 70, per cui tutta una serie di problemi che in Emilia sono espressi dalla tabula rasa che faceva vedere prima il professore (ndr. intervento del Prof. Frazzi sull’Agricoltura che crea paesaggio), dalle nostre parti sono espresse dalla tabula rasa costituita dal vigneto che occupa un intero versante della collina.

C’è stato negli anni Settanta con l’avvento soprattutto della meccanizzazione una specie di analfabetismo che ha cancellato tutta l’esperienza e la ricerca di vocazionalità che aveva caratterizzato l’agricoltura nel periodo precedente, tutto questo è stato annullato e si è cominciato a fare questi grandi vigneti che però danno parecchi problemi. Mi ero rivolto a Francesco Lizio perché avevo sentito delle esperienze del Prof. Scienza che individuava all’interno dei vigneti fasi differenti di terreno che davano origine a gusti differenti dell’uva e delle esperienze di Bolgheri, dove venivano vendemmiate separatamente differenti zone per avere ingredienti differenti. Questa è la cosa da cui sono partito.

Nel caso del primo vigneto che ho fatto non sono però riuscito a valorizzare le informazioni che mi ha dato il pedologo, perché il pedologo ragiona con criteri e categorie con cui l’agricoltore non riesce ad interagire. C’è forse un problema di traduzione: questi concetti che pure sono essenziali e molto importanti dovrebbero essere tradotti per poter essere integrati nella pratica e nelle decisioni dell’agricoltore. In quel caso ho poi fatto una vigna a rittochino e mi sono trovato di fronte a tutti i problemi di cui parlava il pedologo, spianamento del versante e ripresa della forma che aveva precedentemente, e di fronte ai problemi tipici del rittochino: nella viticoltura fatta in funzione delle esigenze meccaniche dei mezzi che la lavorano si esplorano molti orizzonti di terreno differenti. Questo ha sicuramente una consequenza in termini di vegetazione ma ha conseguenze anche dal punto di vista di chi fa il vino: si vendemmiano prodotti che hanno avuto modalità di maturazione e tempi di maturazione molto differenti. Succede allora la stessa cosa di quando si mescolano diversi colori della plastilina, viene sempre fuori marrone! Si perdono elementi di diversificazione.

A questo punto negli ultimi anni ho fatto piccoli investimenti di vigneto, un ettaro, un ettaro e mezzo all’anno in modo da poter sperimentare, non fare grandi estensioni e vedere cosa riuscivo a fare basandomi piuttosto che su un approccio di tipo tecnico su un approccio pratico.

Si parlava prima di etica dell’imprenditore agricolo, che è un concetto un po angoscioso perché si viene caricati di una responsabilità che non sempre l’agricoltore acquisisce volentieri, perché l’agricoltore dev’essere più etico del piastrellista? Non c’è una ragione. Occorre invece, secondo me, cercare di essere in continuità con una memoria… questo concetto mi piace, non tanto un imprenditore etico quanto un imprenditore che ha memoria di quelli che hanno lavorato prima di lui e che prima di lui hanno interpretato le vocazioni del terreno su cui si è e sono stati. Poi attraverso questo percorso di memoria si arriva anche ad essere etici.

Cercando di capire la vocazione dei miei terreni ho riguardato le vecchie fotografie aeree ma danno altrettanto poco aiuto delle informazioni del pedologo, perché da una situazione mezzadrile dove c’erano tantissimi occhi che guardavano il territorio, tantissime braccia che lo lavoravano si è passati ad un’agricoltura in cui gli occhi sono di meno, si vedono meno le diffrenze che ci sono e non si ha più quella versatilità che era data dal lavoro manuale. Lavorando sulla terra, si vanno ad individuare zone sulla base dell’esperienza, percorrendo nelle stagioni il comportamento delle piante (non si osserva solo la vigna, ma anche il seminativo e altre colture) si capisce quali sono i comportamenti dei suoli e si cominiciano ad individuare i suoli che sono più adatti alla viticoltura, non tutti sono adatti.

Quello che io sto cercando di fare adesso, una volta individuata una zona che mi sembra adatta, è di impiantare vigneti su terreni che siano il più possibile su situazioni pianeggianti, anche di piccolo pianoro, perché c’è anche un problema di orientamento: soprattutto in stagioni abbastanza estreme come quelle che stiamo vivendo in questi ultimi anni, se il vigneto è orientato in modo equilibrato tollera anche l’estremità della stagione, se ha un orientamento nord-sud equilibrato ha un’esposizione al sole equilibrata su tutti e due i versi del filare. Nello scegliere l’orientamento corretto non si è più obbligati da un versante, ma si può scegliere una situazione tendenzialmente pianeggiante.
Nella mia azienda siamo su un sedimento pliocenico, caratteristica che restringe moltissimo la zona di territorio in cui si può fare vigneto, non si fa quindi vigneto estensivo che esplora qualunque orizzonte ma si restringe la zona in cui si può fare vigneto e a quel punto deve venire fantasia su come colonizzarlo il più intensamente possibile, perché se ci sono dei posti buoni quelli vanno valorizzati. E fantasia vuol dire anche percorrere delle forme di vigneto che non sono quelle tradizionali della viticoltura intensiva ma per esempio riprendere il filare. Non l’ho ancora fatto, ma forse nel giro di tre anni lo faccio anch’io! Magari non un filare a cavalcapoggio, non filari singoli come erano nella tradizione mezzadrile, ma gruppi di quattro filari per poter raggiungere la dimensione minima di vigneto sotto la quale il vigneto non viene riconosciuto e non è possibile iscriverlo all’albo…
Secondo me bisogna però ritrovare queste forme che permettono di intensificare l’esplorazione di aree e di orizzonti omegenei di terreno, io sono in una zona di seconda vocazione viticola, perciò per me è molto importante riuscire a ottimizzare tutte quante le risorse che permettono di fare prodotti di qualità. In questo senso una delle cose che ritengo molto importanti è che un vigneto esplori uno o al massimo due orizzonti omogenei. Questa omogeneità è veramente necessaria perché quando uno fa vino coltivando l’uva si costruisce la propria tavolozza di colori ed è importante che questi ingredienti abbiano un carattere forte, ben definito, per non fare, come dicevo prima, come con la plastilina.

Come si riallaccia tutto questo alla gestione del territorio? Nel cercare di trovare le modalità di fare impianti che rispondono a questo tipo di filosofia gli obiettivi tecnici arrivano a formulare una serie di paletti che bisogna rispettare, ma non forniscono una risposta su come comportarsi. Noi facciamo agricoltura, facciamo vino, grano, bosco. Quando saremo passati ci sarà qualcun’altro che farà qualcosa al nostro posto, ma possiamo lasciare una cosa che rappresenta un investimento sul territorio ed è la sistemazione ambientale, quella che ci hanno lasciato i nostri genitori, i nostri nonni, i nostri predecessori.

Con in testa questa visione dell’agricoltura come un mezzo per fare investimento ambientale, con le considerazioni sui danni che possono venire da sistemazioni dettate dalla meccanizzazione, con la consapevolezza di cosa è necessario per valorizzare gli elementi di vocazione di un territorio, si riesce a creare un insieme di informazioni che possono orientare verso un’agricoltura che faccia agricoltura di qualità e riesca anche a produrre un’architettura di paesaggio come conseguenza del suo modo di agire.

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