Il 22 giugno sui colli piacentini è avvenuta un piccola cosa molto importante: una piccola degustazione del gruppo Degustatori Associati della Valtidone dedicata ai vini vecchi del territorio. Qui gli investimenti pubblicitari del Consorzio di Tutela vanno da decenni a spingere prodotti industriali e possibilmente d’annata alla ricerca di un mercato da basso prezzo, allo stesso modo le DOC tendono a privilegiare vini senza tipicità territoriale. Pubblichiamo il resoconto di questa degustazione scritto da Giancarlo Spezia, degustatore ma anche amante delle tradizioni enogastronomiche autentiche del territorio, dove scopriamo che “i grandi vini piacentini hanno bisogno di invecchiamento in bottiglia”.
Da molti anni non ci dedicavamo ai vini della nostra terra e finalmente è giunta l’ora di riscattare questa pecca. L’argomento era quello di valutare quanta tenuta al tempo avessero quei vini rossi fermi piacentini progettati nell’era in cui alcuni produttori si affrancarono dai modelli imposti dalle cantine sociali per tentare la via di vini fermi, basati su basse produzioni di uva per ceppo. Oggi la potremmo definire la “Nouvelle Vague” della nostra viticoltura e quei vini furono le pietre miliari di una nuova via che voleva affermare tutta la potenzialità di un territorio. Vini che spesso al loro esordio erano chiusi, spesso bistrattati dai consumatori superficiali perché ridotti, estremamente duri e tannici ma che ora hanno avuto la possibilità di riposare a lungo in bottiglia ed ammorbidire le loro spigolosità. Il vino più giovane aveva 14 anni, il più vecchio 22.
Abbiamo diviso gli otto campioni disponibili (cui si è aggiunto come testimone un Barbera 2009 di Giovanni Magistrati, un eccellente vino che è servito per rendere tangibile la diversità nei confronti di prodotti freschi) in due batterie ordinate per annate dal più giovane al più vecchio e nelle quali la prima è stata composta da vini della Valtidone, la seconda da vini della Valnure e Valtrebbia. I produttori erano: Baraccone, Lusenti, Gaetano Solenghi, La Stoppa, Torre Fornello, la Tosa. Non analizzerò i singoli vini ma voglio semplicemente enunciare dei concetti generali.
In primo luogo tutti i vini erano assolutamente intatti, senza cedimenti ed ossidazioni, con una tenuta di colore invidiabile. Ognuno di essi dispiegava caratteri differenti, tutte risultanti dalle caratteristiche dell’annata e dalla mano del loro creatore ma il tempo non aveva indebolite le loro caratteristiche, anzi le ha esaltate stemperando i tannini della primitiva durezza e lasciando emergere un frutto ancora presente, nitido e preciso, ottimamente delineato. Questa pulizia perfetta e l’assenza di qualunque puzza anomala ha dato l’impressione di un risultato corale esaltante, nel quale ogni componente dell’orchestra ha fornito una prova eccellente, con un paio di assoli straordinari.
Come ha giustamente sottolineato Giulio Armani questi vini piacentini hanno lasciato che il tempo li trasformasse in opere che sanno dire la loro senza dover chinare il capo davanti ai grandi vini di Langa e di Toscana, ed ha enunciato un concetto fondamentale: i grandi vini piacentini hanno bisogno di invecchiamento in bottiglia. Cosa che i consumatori danno per scontata per i grandi vini di Francia e d’Italia ma non per i nostri a causa della immagine di pronta beva creata dai frizzanti.
Occorre che i produttori ed i consumatori evoluti facciano opera di proselitismo per far conoscere questo aspetto della produzione locale, che potrebbe aprire nuovi sbocchi per una serie di “riserve” di vecchie annate che i produttori potrebbero stoccare per metterli in vendita già invecchiati. Perché questi prodotti di eccellenza assoluta possono divenire una punta di diamante che schiodi la percezione generale che la nostra provincia sia produttrice solo di vini freschi, frizzanti, semplici e di pronta beva.
Non dobbiamo dimenticare che creare una immagine di alta qualità rende un servigio impagabile anche a tutta la produzione meno nobile, aiutando la vendita fuori provincia dei nostri prodotti più di massa ma comunque oggi indispensabili per sorreggere l’economia della zona.
Un altro risultato eclatante di questa degustazione è stata l’uniformità dei vini all’interno delle due batterie e la profonda differenza tra la serie della Valtidone e quella della Valnure e Valtrebbia. I suoli argillosi della Valtidone hanno donato vini sicuramente tannici nella loro giovinezza e che oggi si mostrano esili ed eleganti, tutti dominati da una magnifica acidità che li rende di superba e fresca beva e spinge il degustatore a chiedere volentieri il rabbocco del bicchiere tanta è la piacevolezza. Non da meno sono i cugini delle altre due vallate, notoriamente figli di terreni molto poveri e per questo facilmente padri di vini molto più potenti ed armonici, dove il frutto è ancora meravigliosamente intatto ed in generale sono basati su una materia di notevole spessore.
Questa evidentissima differenza pone un altro importante argomento di discussione per il futuro: questi vini vanno classificati per sottozone, riunirli sotto l’unico cappello di Colli Piacentini è riduttivo proprio per il carattere estremamente diverso che hanno dimostrato.
Due vini hanno svettato sugli altri, e vado a descriverli brevemente.
La Barbera “L’Attesa” 1998 di Gaetano Solenghi è un capolavoro di stupefacente eleganza e finezza, pur vibrante e maschio quanto una barbera dev’essere. Il colore è ancora perfetto ed il naso ha note composte di cuoio con un lontano richiamo alla cristallina freschezza del frutto. In bocca è sottile, minerale, con un equilibrio perfetto tra l’astringente acidità e la dolcezza del tannino ben stemperato. Sembra di mangiare una caramella. Esaltante la persistenza in bocca di questo capolavoro che fa onore alla Valtidone ed al suo creatore, viticoltore esemplare che non ha mai ricevuto i consensi che realmente meritava. Sono felice che lui fosse li con noi, ad assistere in questa calda notte d’estate al trionfo del suo paziente lavoro.
La batteria della Valnure e Valtrebbia, più omogenea rispetto a quella della Valtidone, aveva come mattatore il Gutturnio “Vignamorello” 1991 della Tosa. Dopo 22 anni questo vino di grande razza presenta una integrità di colore, un frutto ancora presente, dei tannini ancora vividi tali da fare pensare che sia pronto ad affrontare ancora un invecchiamento di alcuni decenni continuando a progredire in complessità e finezza (perché questo fa il tempo quando i vini sono così armonici, equilibrati e freschi). Ricordo perfettamente la potenza di questo vino al suo apparire, che lo rendeva difficile da bere a quel tempo.
Ma come tra gli uomini anche nei vini il tempo è galantuomo e fa emergere i veri valori in campo. Il colore è ancora oggi impenetrabile, il naso di incredibile complessità olfattiva con note di liquirizia che ben di rado si ritrovano in vini vecchi, un frutto ancora ben solido e piacevole. Grandioso il raccordo con la bocca dove ripete le note al naso in un crescendo rossiniano.
Questa grande degustazione rimarrà memorabile, nobilitata dalla presenza dei produttori, che hanno potuto gioire con noi nella consapevolezza di avere fatto qualcosa di realmente grande, e di poter costruire su una base realmente solida per il futuro.
Articolo di Giancarlo Spezia