“In mezzo al vigneto c’erano tutte le verdure dell’orto, i piselli, le patate, le verze, il radicchio, tutto, tutto l’orto. Il Ciso era giù dalla mattina appena faceva giorno e stava giù fino a cena. Pioveva, fioccava, lui era sempre giù… ” sono le parole della moglie del signor Ciso, il vecchio proprietario della vigna trentina che è oggi è al centro dell’attenzione di molti appassionati di vino, di vini trentini e di vini naturali in particolare. Si tratta della vigna di Lambrusco a Foglia Frastagliata ultracentenaria e ancora a piede franco che i Dolomitici, associazione di 11 vignaioli che si autodefiniscono Liberi Vignaioli Trentini, hanno salvato dall’estirpo prendendola in affitto. L’hanno curata per alcuni anni arrivando nel 2010 alla prima vendemmia e alla prima vinificazione.
Il vino che ne è nato ha preso il nome del suo vecchio proprietario: il Ciso. Il 3 giugno a Castel Noarna i Dolomitici hanno chiamato a raccolta amici, operatori ed appassionati e hanno presentato il loro vino collettivo scatenando una bellissima energia, sembrava di assistere alla nascita di qualcosa di grande e di nuovo. E forse è proprio così, questo gruppo di persone ha saputo gioire della fatica fatta insieme, del confronto su come affrontare il lavoro, un progetto dove ciascuno di loro è stato protagonista.
Un vitigno che lascia liberi i contadini
Il Lambrusco a foglia frastagliata era il vitigno più coltivato nella bassa Val Lagarina ma oggi se ne trovano solo poche piante perché nel tempo è stato soppiantato da varietà più commerciali. Le ragioni, oltre che nelle mode, si possono ritracciare nel tipo di agricoltura che si faceva e che è stata quasi totalmente abbandonata anche in Trentino. “Un tempo nessuno faceva una vitcoltura come oggi, chi coltivava la campagna aveva un’azienda promiscua dove si facevano gli orti, si coltivavano i campi e si faceva anche allevamento – racconta Luigi Spagnolli dell’azienda Vilar – . In luglio i contadini si trasferivano sui pascoli dove restavano anche 20 giorni o un mese, questa varietà di uva si è autoselezionata perché molto resistente alla peronospera. Non è che non si ammala, ma perde i grani ammalati e la pianta rimane sana.”
La biodiversità in Trentino
Questo è davvero molto istruttivo e dobbiamo ringraziare i Dolomitici per avere portato alla nostra attenzione questo aspetto. Quando parliamo di vini naturali non dovremmo dimenticare l’aspetto legato a questa parte dell’agricoltura: piantare la varietà giusta nel posto giusto e operare una selezione massale delle piante migliori (e migliori vuol dire anche più resistenti alle malattie) perché abbiano la possibilità di trasmettere le proprie caratteristiche alle piante figlie.
Salvando questa vigna i Dolomitici hanno dato il loro contributo alla difesa della biodiversità in Trentino: “Il vero valore di questa vigna – continua Spagnolli – è il patrimonio genetico: da qui abbiamo raccolto i semi e insieme all’Università di Piacenza abbiamo preparato le piantine di Lambrusco a foglia frastagliata riprodotte da semi autoimpollinati.”
L’esperienza collettiva dei Dolomitici
Il vero valore di questa vigna, dico io, è stato quello di riportare all’attenzione di molti le perdute pratiche contadine, di riuscire a tenere insieme 11 belle teste (22 belle mani) di vignaioli e a farli crescere insieme su un progetto collettivo: “Prima ognuno aveva la sua vigna, questa invece è la vigna di tutti – dice Elisabetta Dalzocchio – nessuno aveva esperienza su questa vigna e su questo vitigno e ognuno di noi ha dovuto (e potuto) fare la sua parte per decidere come prendersene cura”.
Il Ciso in cantina: stare fermi
E dopo il vigneto la cantina, forse anche in questo la saggezza e la pragmaticità contadina hanno fatto nel tempo la loro parte per creare il carattere dei vini tradizionali: “In cantina con il Ciso abbiamo lavorato semplicemente cercando di tirar fuori quello che c’è dentro – racconta Eugenio Rosi – senza metterci le mani, una vinificazione senza solfiti con fermentazione spontanea. Dico sempre che la bravura in cantina è stare fermi, bene, qui abbiamo cercato di stare fermi.”
E dopo? Che ne sarà di questo luogo e di questo progetto? Ha risposto Elisabetta Foradori: “Vorremmo piano piano farlo vivere come era nello spirito del Ciso, cioè come un orto, non solo una vigna, un giardino policulturale. Questo è anche un messaggio per i ragazzi e per i viticoltori trentini: è possibile fare un Trentino diverso.”
La degustazione del Ciso
Infine: il vino è buono, si, estremamente territoriale. Rubino intenso nel bicchiere, naso selvatico su toni di frutti rossi, uva fragola su tutto. Poi, a sprazzi, maresca e prugna , pepe, spezia piccante. Bocca ancora decisamente dura, acidità pronunciata, la bellezza intrinseca di un vino da tavola, da accompagnare al cibo. Corrispondenza tra sensazioni olfattive e gustative. Non eccessivamente lungo, lascia la bocca assolutamente pulita anche se accompagnato da piatti grassi od unti. Plus, legno assolutamente non pervenuto. Da affinare in bottiglia per almeno 5-6 mesi, dopo l’estate potrebbe positivamente sorprendere. Abbinatelo alla tradizione cucina trentina, ma anche a classici come lasagne al forno, tagliatelle con sughi importanti. Potete rischiare anche cacciagione da pelo con composta di mirtillo o ribes.
I Dolomitici sono: Elisabetta Foradori, Elisabetta Dalzocchio, Eugenio Rosi, Castel Noarna, Cesconi, Maso Furli, Molino dei Lessi, Gino Pedrotti, Francesco Poli, Vignaiolo Fanti e Vilar.
PS: Di vini buoni ce ne sono tanti, ma di Ciso ce n’è uno solo, per ora.